Mio figlio non vuole andare dallo psicologo

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Ovviamente è una cosa che capita, come tante volte capita di trovarsi a gestire piccole o grandi divergenze fra genitori e figli.

Un adolescente che non vuole andare da uno psicologo, anche quando si pensa che la cosa gli farebbe un gran bene, è un esempio particolarmente intenso di una di questa situazioni.

Perché mio figlio non vuole andare dallo psicologo?

Premetterei subito che il punto che
sembra più importante è il fatto che prendere alla lettera il rifiuto è una cosa che può essere fuorviante,

Con questo non voglio dire che le parole del ragazzo non vadano prese seriamente, anzi. Quello che mi preme comunicare è che la cosa più importante è quella di riuscire a leggere le intenzioni di quel “no” prima di tutto.

Si tratta di un passaggio fondamentale, perché seguendo questo principio diventa più facile reagire in un modo che sia utile dall’adolescente.

In molti casi, difatti, quel “no” non è molto diverso da molti altri “no” detti dall’adolescente al legittimo scopo di proteggere e difendere il proprio spazio personale.

Motivi del rifiuto di andare dallo psicologo

Un ragazzo, ad esempio, può sentirsi spinto a rifiutare i buoni consigli o le indicazioni dei suoi genitori, anche quando le ritiene utili e corrette, allo scopo di non lasciare che la volontà di un altro abbia un effetto su quello che lui pensa.

Questa tendenza a fare l’eroe romantico solo contro il mondo di solito raggiunge una certa intensità proprio quando viene rivolta nei confronti dei genitori, proprio perché di loro nella maggior parte dei casi l’adolescente si fida, e a loro si affida. Insomma i genitori hanno un forte ascendente su di lui e questo lo spaventa, soprattutto quando dicono delle cose ragionevoli come

Là non ci puoi andare perché è pericoloso“,

Se ti vedo fumare ti strappo le orecchie

oppure “Se tu andassi bene a scuola sarebbe tutto più semplice“.

Dire di “no” però non vuol dire solo mantenere un’individualità di scelta, vuol dire anche proteggersi da qualcosa di spaventoso.

Interrompere uno sport in cui si è sempre impegnato perché è cambiato qualcosa nei rapporti con i compagni, oppure anche solo il fatto di non voler parlare di qualcosa che lo turba sono delle cose che hanno la funzione di isolare alcuni frammenti della sua vita che lo mettono a disagio.

Lo scopo (inconsapevole) è quello di riuscire ad evitare di finire invischiato in una battaglia da cui sente potrebbe uscire sconfitto, almeno per il momento, e questo non vuol dire che non sia per nulla disposto a ricevere aiuto, ma che per come stanno le cose ora, da solo non ce la fa.

Se ho fatto questi esempi è per proporre l’idea che il rifiuto di andare dallo psicologo da parte di un adolescente non va sempre preso come un dato indiscutibile.

Questo riguarda situazioni, ad esempio

  • in cui dice di non avere niente che non va,
  • in cui insiste sul fatto di non essere matto e che anzi “i matti siete voi due“,
  • o in cui dice ancora che semplicemente non ne ha per niente voglia.

Perché mio figlio non vuole andare dallo psicologo? (Eppure ne avrebbe bisogno…)

Spesso rifiuti come questi servono soprattutto per esprimere un fastidio davanti all’idea che ci possa essere qualcuno che viene frugargli in testa, come se dovesse essere un’esperienza che viene fatta esclusivamente per un suo danno, oppure solo per fargli una gran ramanzina o giù di lì.

Questo rifiuto, inoltre, serve soprattutto ad esprimere la legittima paura di venire in contatto con quelle parti di sé che sono dolorose e spesso fonte di una certa vergogna.

[Qui ho scritto delle situazioni in cui la dimensione della vergogna è quella dominante, nell’adolescente in difficoltà: mancanza di autostima in adolescenza.]

Nei casi in cui le cose stiano effettivamente così un genitore che si assuma la responsabilità dell’iniziativa di cercare e magari vedere per un primo colloquio questo psicologo è una cosa che può fare una gran differenza, perché il messaggio non diventa più

Armati di coraggio e va’ a parlare di te

ma

Sono io genitore che sono preoccupato che ci sia qualcosa che non va e ti chiedo, io genitore, di andare a parlarne, perché sono io che penso che sarebbe importante.”


Se lo scopo finale dei due atteggiamenti è quello di vedere l’adolescente che ci va a fare questo colloquio, le implicazioni sono diverse.

L’investimento personale richiesto all’adolescente nel secondo caso, cioè, è minore.

Qui devo puntualizzare che l’investimento personale ovviamente ha una sua importanza, anche grande, in una psicoterapia però ci si può concedere un po’ di tempo perché venga costruito, senza affannarsi a vedere che ci sia sin dal primissimo momento. In questo modo, anche la presa di responsabilità di andare a fare un colloquio può diventare per un adolescente un’occasione per imparare a fare questo genere di cose, per imparare a gestirle, con la sicurezza di avere alle spalle un contesto di genitori e professionista che sono disposti a riconoscere quanto si tratti di cose sempre difficili e che per questo sono disposti ad aspettare che l’adolescente vi si lasci coinvolgere con i suoi tempi.

Occuparsene per l’adolescente = occuparsi dell’adolescente

[Il dott. Matteo Albertinelli e la dott.ssa Sara Pontani fanno esempi delle paure dell’adolescente davanti al colloquio con lo psicologo e come approcciarle.]

Aggiungerei un’altra cosa a commento di questa spinosa situazione: spesso compiere il primo passo della proposta di un colloquio all’adolescente è difficile quando i genitori avvertono che loro figlio ha delle fragilità che vanno tutelate.

In questi casi, se da un lato sentono di dover premere perché inizi a stare meglio, dall’altro loro stessi sentono il bisogno di proteggerlo, bisogno che si accompagna alla sensazione che la proposta di colloquio potrebbe essere vissuta dal ragazzo come umiliante, come frustrante, come qualcosa di brutto: un’immagine brutta di sé che verrebbe rimandata all’adolescente. Ecco, in queste situazioni spesso c’è qualcosa che riguarda sia la sensibilità dell’adolescente, sia la sensibilità dei genitori.

Come accennavo prima, un contatto preliminare tra il genitore psicologo può essere d’aiuto allo scopo di permettere ai genitori stessi di figurarsi un modo di proporre un colloquio all’adolescente che non lo distrugga ma che loro per primi vivano con una possibilità di crescita per lui. In questo modo, i genitori si fanno più o meno consapevolmente carico delle ansie che l’adolescente potrebbe collegare al colloquio e attraverso di loro inizia un’utile opera di “bonifica del territorio”. Genitori sereni all’idea del colloquio, cioè, riescono solitamente a proporlo all’adolescente in modo più sereno.

C’è un altro tipo di situazione da prendere in considerazione, poi, cioè quella in cui il lavoro dello psicologo con i genitori è l’unico tipo di lavoro che si può fare.

Si tratta di situazioni in cui l’adolescente è veramente quasi inaccessibile, perché troppo sofferente o perché ha un rapporto così conflittuale con i genitori da impedirgli ogni tipo di dialogo su di una questione delicata come il colloquio con lo psicologo.

In questi casi è utile pensare al rifiuto del ragazzo come ad una delega completa; come se dicesse:

Io non ce la faccio, per favore occupatene tu

In questi casi il lavoro con i genitori diventa

  • da un lato quello di costruire una comunicazione familiare diversa, che diventi pian piano capace di ritrovare un collegamento intimo con l’adolescente
  • e contemporaneamente quello di aiutare i genitori a far star meglio indirettamente il figlio adolescente.

Cogliendo le occasioni in cui inevitabilmente sarà lui stesso a chiedere aiuto (e queste non mancheranno) ma che sono fisiologicamente così difficili da cogliere perché l’adolescente è spesso un personaggio piuttosto un sfuggente.